13 febbraio 2008 
 

Il racconto di Laura Winterfeldt cancella molti stereotipi riguardanti gli italo americani

 

Era una fredda sera di novembre: salendo in macchina con mio padre, mia madre e i miei due fratelli maggiori, mi sembrava di avere lo stomaco allargato oltre ogni limite e pensai che avrei  impiegato settimane prima di poter ricominciare a mangiare. Lasciammo le luci di Long Island  e ci dirigemmo verso casa, nel New Jersey. Mi addormentai in fretta e mi risvegliai il giorno dopo nel mio letto. Era così finita un’altra vacanza con i miei parenti italiani.

Mi chiamo Laura e appartengo alla terza generazione di italiani nati in America. Sono italiana soltanto a metà, ma quella metà è sempre stata speciale per me . Sono cresciuta nel New Jersey  e a New York, dove gli italiani non erano una rarità. Comunque, ero e sono orgogliosa di essere in parte italiana, sapendo anche che sono rimasti in pochi a portare il cognome di mio padre, almeno negli Stati Uniti.

Quando andavamo a Long Island partivamo presto, perché bisognava fare due ore di macchina attraversando il traffico di New York e arrivare a Long Island verso mezzogiorno. Mi ricordo il quartiere. Le case erano tutte di mattoni e sembravano tutte uguali. Erano molto vicine l’una all’altra ; si poteva allungare il braccio dalla finestra di una casa per dare qualcosa al vicino della casa accanto. Le case avevano poco spazio intorno.

Al nostro arrivo tutte le zie ci abbracciavano, davano un buffetto sulle guance e facevano scivolare una banconota da dieci dollari nelle nostre mani, non facendosi notare dai nostri genitori. Le stanze della casa erano piccole, ma in ordine;  l’aroma del cibo mi riempiva il naso e mi faceva venire l’acquolina in bocca. Mi veniva fame in fretta. Ci portavano giù nello scantinato. Mi ricordo lo scantinato, un locale grande quanto la casa, tutto ricoperto di grandi piastrelle bianche e marroni. Da una parte c’era un bar e dall’altra c’era un cucinotto con un piccolo bagno vicino alle scale. Nel resto del locale c’erano dei tavoli disposti a U. All’arrivo degli altri parenti il locale diventava molto rumoroso.

Io gironzolavo aspettando l’inizio del pranzo. C’era sempre un piatto di portata pieno di riso e torta di patate. Mi piaceva moltissimo e faticavo a starne lontana. Alla fine i miei genitori mi sorprendevano a mangiucchiare rammentandomi “di lasciare posto per la cena!”

Cominciava quindi il pranzo che durava per tutto il giorno. C’erano almeno sei portate : zuppa, antipasto, pasta, carni varie, dolci e frutta. Cucinato tutto in casa dalla zuppa ai ravioli. Chi smetteva di mangiare veniva subito incoraggiato dalla parola “mangia” seguita da qualcosa che veniva messo nel piatto. Le conversazioni erano a voce alta, e chi non ne era al corrente poteva pensare che stessero litigando, ma non era vero. L’andirivieni delle zie era continuo mentre servivano il cibo che avevano preparato con tanta lavoro.

Poi, alla fine, tutti cominciavano ad andare a casa, io salivo in macchina  e mi addormentavo.

Siamo diventati grandi. I miei fratelli si sono sposati, ma non hanno avuto figli. L’unico maschio era mio cugino che aveva dieci anni meno di me. Cominciai a pensare alla mia eredità italiana. Avevamo ancora dei parenti in Italia? Se era così, dov’erano? Perché erano partiti tanti anni prima?

Feci un primo tentativo di trovare le mie radici. Rintracciai alcune famiglie con il cognome Penighetti che abitavano ad Albareto, in provincia di Parma e scrissi a tutte. Ricevetti due lettere di risposta, ma non fui in grado di capire se eravamo imparentati o meno.

Poi ci si è messa di mezzo la vita ed è passato altro tempo. La ricerca è ripresa lo scorso autunno quando è venuta da me una exchange student per frequentare l’anno scolastico. Leda  porta lo stesso cognome di mia nonna, Tettamanti.

Lentamente ho cominciato a comporre le tessere della vita di questa gente con l’aiuto di persone meravigliose che ho incontrato lungo il cammino.

I Penighetti sono originari di Albareto, Parma. Il contatto con loro è stato fatto dalla mamma di Leda, la studentessa che sta con me, che ha chiamato e parlato con Mario che ha fatto le sue ricerche in parrocchia. Così si è scoperto che il bisnonno di Mario e quello di mio padre erano fratelli. Soltanto due membri della famiglia sono emigrati negli Stati Uniti, Giovanni (John) e mio bisnonno Giuseppe (Joseph).

Joseph si stabilì a New York e sposò Carmela Pareti. Ebbero nove figli, ma solo quattro sopravvissero. John, dal quale andavamo a Long Island, Flo, May e Louis. Flo e May non si sposarono mai e vissero assieme a John. John sposò una ragazza italiana, Stella. Ebbero una bambina, Karen e un  maschietto Joel. Joel ebbe una figlia e un figlio. Quel ragazzo, Jason è l’ultimo maschio vivente negli Stati Uniti in grado di tramandare il cognome.

Louis sposò ed ebbe due figli, ma sia loro che la madre morirono in poco tempo. Poi incontrò Elda Magnone.

Grazie ai genitori di Leda, Laura  e Michele, l’amico Bobby che ho incontrato durante le ricerche ed anche un po’ di fortuna nel localizzare le informazioni sulle fonti cartacee, abbiamo rintracciato i Magnone a Zanco di Villadeati, Alessandria.

Terzo Magno Magnone sposò Giuseppina Zanetti. Ebbero tre figli, Carolina, Giuseppe Francesco ed Ermenegildo Cipriano. Emigrarono negli Stati Uniti e si stabilirono nel New Jersey. Terzo ritornò in Italia e  lasciò la moglie Giuseppina ad allevare i figli. Non si sa che cosa sia successo a Terzo, ma nel 1920 Giuseppina risultava essere vedova. Dopo un po’ si risposò.

Carolina (Lena) sposò un italiano, Louis Farello da cui ebbe due bambine. Ermen (Charlie) combatté nella Prima guerra mondiale e subì uno shock da granata. Non si sposò mai e passò il resto dei suoi giorni in una casa di cura per veterani di guerra.

Giuseppe, mio nonno, si faceva chiamare Louis,  perché non si sa. Con un cavallo ed un carro incominciò a trasportare merce. L’attività progredì e passò al trasporto con gli autocarri fondando la Louis Magnone Trucking Inc. Era proprietario anche di un bar che si racconta abbia perso e poi rivinto giocando a poker.

Louis sposò Mary Tettamanti.

I genitori di Mary si chiamavano John e  Clementina Tettamanti. Questa famiglia è ancora fonte di ricerca. Mi hanno raccontato che erano di Baggio, adesso un quartiere di Milano. Le ricerche di Ernesto R Milani hanno rintracciato Giovanni Tettamanti nato a Como il 15 settembre 1856 da Angelo e Giuditta Corti che risulta congedato dal servizio militare di terza categoria in data 27 ottobre 1876. Siccome le parrocchie di Como erano diverse occorre adesso individuare quella giusta. Di professione tessitore si ipotizza si sia trasferito a Baggio per lavorare nelle filande di seta locali. So per certo che quando John venne in America faceva già il tessitore e lavorò nelle filande di seta del New Jersey. Ebbero sei figli, ma solo tre sopravvissero: Louisa, Mary e Victoria. Tutte e tre le ragazze lavorarono nelle filande di seta come bobinatrici, spolatrici e tessitrici.

Mary Tettamanti sposò Louis Magnone. Nacquero due bambine, Elda ed Evelyn e un bambino, Elbert.

Fu nell’azienda di trasporti di Louis Magnone che il vedovo Louis Penighetti incontrò Elda, figlia di Louis Magnone (mia nonna) quando venne assunto come autista di autocarri. Si sposarono e nacque mio padre, Louis. Sto ricomponendo poco alla volta le loro vite e la loro provenienza. Studio ciò che stava accadendo in Italia al tempo della loro partenza  e quello che fecero una volta arrivati in America. Adesso quando dico di essere italiana , non vedo soltanto una grande e vaga regione, vedo i paesi da dove sono partiti. Guardo le fotografie e immagino i miei parenti mentre vivono a casa loro e poi decidono di andarsene alla ricerca di qualcosa che non avevano visto nella speranza di una vita migliore per se stessi e per le loro famiglie.

Quando crescevo la mia impressione era che gli italiani fossero gran lavoratori orientati verso la famiglia. Osservavo l’insediamento dei grandi gruppi familiari di italiani che talvolta, a New York, occupavano interi caseggiati. Osservavo quanto erano disponibili a fare i lavori che gli altri immigrati disdegnavano e a lavorare senza orari. Ebbene, la mia impressione non ha fatto altro che aumentare di spessore.

Questa è la mia storia mentre continuo a cercare i miei parenti italiani, mentre non vedo l’ora di incontrare altre persone e di imparare ancora di più sul paese da cui sono arrivata tanto tempo fa._

 

Laura Winterfeldt - Traduzione di Ernesto R Milani