20 febbraio 2008 

 

Antonio Signoroni vive in Canada, anzi a Toronto da oltre trent’anni

 

I puri bastardi che noi siamo. E’ il titolo di una splendida pagina di papa Lombardei (Gianni Brera), dedicata ai lombardi. Un ossimoro gonfio di affettuosa fierezza. Dunque anche noi lodigiani ne saremmo pure onorati. E la conferma viene da un altro ossimoro: di zio Age (Bassi) stavolta: “In ogni lodigiano c’è un casaro con un pizzico di Fanfulla”. Cosa c’è di più antitetico tra il placido lavoro di un casaro radicato alle verdi zolle dei “campi quadrati cinti di gelsi” (cercatene gli ultimi esemplari superstiti di là dall’Adda, tra i silenzi intatti di Bassariva) e lo spirito fantasioso (e bislacco) di Fanfulla? Così se penso a un proto-lodigiano d’oggidì mi affiora d’acchito la risata contagiosa di Antonio Signoroni, “fanfullino” 1993. Vive in Canada da più di trent’anni ormai, e mi piacerebbe risentirlo, dopo un black out di mesi. L’ho perso in non ricordo quale convento di un angolo d’Italia bello e remoto, dove era venuto a passare le ferie, e a meditare sull’arcano del nostro umano pellegrinare: tra “un nigul e un ragg de sul”, direbbe un altro Antonio (Cècu Ferrari d’la Bergugnuna). Era, e forse è tuttora, giudice al Tribunale d’appello per gli infortuni sul lavoro di Toronto. Prima di arrivare in Canada, e di conseguire il titolo professionale, la sua vita era stata un romanzo picaresco. Diplomatosi geometra si era iscritto alla facoltà di Economia e Commercio alla “ Cattolica”. Ma più che dalle discipline che studiano teorie e prassi dei dané, lui fu conquistato dai fermenti della contestazione studentesca, il mitico (bon e gram) Sessantotto. Nelle manifestazioni e nei cortei di piazza era costantemente in prima fila, ma senza spranghe né passamontagna. Aveva a lungo meditato Gandhi da adolescente. Quando caricava la polizia, proprio i pacifisti come lui erano i meno pronti a tagliare la corda. Così  finì un paio di volte al commissariato di polizia. Conoscendolo, non è da meravigliarsi se, a parte la sua professione di fede gandhiana, abbia pure invitato l’ufficiale di  turno a lasciarlo andare con il grido dei barcaioli medioevali: “Lassèl passà  che ’l ven da Lod!”. Leggeva disperatamente e disparatamente. Di Dante aveva fatta propria l’orazion picciola di Ulisse ai compagni: “Nati non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e conoscenza”. Il rovello di conoscere il mondo lo fece presto fuggire dai pur amati brevi orizzonti di Lodi. Cominciò a girovagare per l’Europa, imparando mozziconi di francese e inglese, tedesco e spagnolo. Lavorava quanto bastava per un letto  e un piatto caldo. A Londra riuscì per qualche mese ad interpretare la parte di maggiordomo, finché una volta, nell’inchino a una bella signora dell’ high society, sbregò il cavallo dei pantaloni troppo stretto. Ne uscì un sonoro “screech”, assai simile a un pernacchio. “My God, how rude!” (Mio Dio, che cafone), squittì la signora, prima di fingere lo svenimento. “Sorry, madam, but I didn’t  break wind” (Mi spiace, signora, ma non è stato un peto), ghignò lui, prima di presentarsi al padrone e licenziarsi sui due piedi, perché: “You see, sir, no humour, no  party!” (Senza umorismo, non c’è festa).  L’Inghilterra gli parve chiusa nel perdurante superiority complex che la  civiltà finisce a Dover. Lui sognava invece gli States, mito del grande paese dove si incrociavano tutte le razze e le culture del mondo; dove un governo imperialista poteva infognarsi tra gli orrori del Vietnam e i giovani ribellarsi cantando gli inni libertari di Bob Dylan e Joan Baez. Ma gli States, si sa, hanno il complesso dei comunisti, e in Italia Antonio era stato schedato dalla polizia. Restava il Canada, con il suo fascino di terra ai confini del mondo e la sua interessata generosità per gli immigrati. Antonio arrivò a Toronto nel 1967 con la sua valigia piena di libri, ottanta dollari e nessuna idea di come sbarcare il lunario. Sapeva benissimo, invece, cosa cercava: risposte sul mondo e sulla vita. Si iscrisse alla facoltà di Filosofia. Un college gli garantiva l’alloggio in cambio di qualche servizio in biblioteca. Per nutrirsi si metteva in coda al self-service della mensa universitaria e raccattava gli avanzi. Per qualche anno ruminò insalate scondite, come i conigli del suo cortile di Lodi. Come il figlio prodigo del Vangelo cominciò a sentire nostalgia dei tetti della sua città. Ma non voleva tornare da sconfitto. Si laureò a pieni voti e per tre anni insegnò Sociologia all’università di York. Poi gli studi disperatissimi per la laurea in Legge. Toronto pullula di italo-canadesi, più invisi dei coloured agli indigeni. Antonio pensò di tornare utile ai connazionali difendendoli dagli abusi delle leggi. Qualche volte, a dire il vero, questi connazionali li avrebbe  mandati volentieri a ramazzare l’Adda natia, visto che si vergognavano delle loro origini di poveri e di italiani. “Sono grato al Canada – diceva - , ma è un paese senza radici”. E con gli anni, lui sentiva sempre più forte il richiamo delle sue. Il figlioletto Roberto rimase colpito dalla sapidità del dialetto lodigiano, fin dal giorno che alzando il musetto da un debordante cono di gelato, sentì il padre commentare: “Che bèla facia mustulenta!”. Appena ebbe risparmiato abbastanza per il viaggio, Antonio tornò in visita  a Lodi. Erano i giorni di San Bassiano. Appena arrivato e salutati i suoi vecchi,  salì in soffitta, e uscì dall’abbaino per contemplare i rossi coppi di Lodi, incendiati dal tramonto. L’ansia di controllare che il campanile del duomo e il tiburio dell’Incoronata fossero ancora lì, come li aveva lasciati tanti anni prima. Suo padre si preoccupò che non stesse bene: “Antonio, ma s’te fé, lì sül técc, tame un gat?”. L’aria era gelida e Antonio si strofinava le braccia con entrambe le mani per scaldarsi: “Pà – disse – indùe te  gh’è el tabar?”. Sarò sempre  grato ad Antonio anche per un consiglio da vero amico. Avendo ricevuto tempo fa  proprio dal Canada una lettera nella quale una certa agenzia commerciale mi comunicava la vincita di cinquemila dollari, gli chiesi se poteva informarsi sulla questione. Dopo poche ore la sua risposta  via email: “Caro Andrea, la tassa di quaranta Euro che dovresti pagare per ricevere il premio ti farà pervenire una collanina  del valore massimo di euro tre. Fà quel che te vöri, ma se te paghi, da amis te disaréssi: rembambid!”_ 

 

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